SOCIAL LAB 76
Manifesto della Comunità solidale

I/le giovani non sono un gruppo omogeneo ed indistinto: bisogni, aspettative, scelte di vita presentano una straordinaria e complessa variabilità
In un mondo in rapida e continua evoluzione, le nuove generazioni sono le più esposte ai cambiamenti che ne determinano nuovi bisogni, motivazioni ed aspettative. La complessità del mondo giovanile impone, oggi, approcci e politiche individualizzate capaci di comprendere le necessità e di intercettare gli svariati modi di essere giovani.
Il progressivo invecchiamento del Paese unito al fenomeno epocale dello spopolamento del Mezzogiorno ed, in particolare, delle sue aree interne, ha determinato negli anni uno squilibrio a favore della popolazione più anziana. La scarsa attenzione nella nostra struttura politica, economica e culturale ha reso i giovani sempre più residuali, fino a vere e proprie forme di marginalità, nell’accesso ai diritti, alla partecipazione, alle risorse e al potere. Una condizione che si accentua per quei ragazzi che vivono situazione di maggiore disagio, che abitano in aree depresse o, ancora, sono privi di reti familiari forti. Sono invisibili e, talvolta, irrilevanti per chi governa, per un mercato del lavoro caratterizzato da precarietà e scarso reddito, per il welfare costretto a rincorrere i bisogni crescenti di assistenza della popolazione anziana.
Di giovani si tende a parlare solo in presenza di fenomeni negativi, quali, ad esempio, le dipendenze o le varie forme di violenza individuali o di gruppo, con un approccio per metà paternalistico e per l’altra metà criminalizzante. In altre parole, molti degli strumenti e delle categorie usate per leggere i fenomeni giovanili, si sono rilevate inadatte ad affrontare e risolvere in radice la cosiddetta “questione giovanile”.
Leggere il mondo giovanile vuol dire innanzitutto riconoscere che i giovani non sono un gruppo omogeneo ed indistinto: bisogni, aspettative, scelte di vita presentano una straordinaria e complessa variabilità che si lega e, talvolta, confligge, con il contesto familiare, sociale e territoriale. Ciò impone un approccio diversificato, capace di costruire nuove forme di relazione in cui i ragazzi e le ragazze possano sentirsi protagonisti ed attori del cambiamento. Insomma, parlare meno di giovani e lasciar parlare i giovani, ascoltarli, stimolare la loro curiosità e, soprattutto, dare loro fiducia.
Il progetto OpS – Operatori di Solidarietà, co-finanziato nell’ambito del Piano Azione e Coesione Avviso “Giovani per il sociale ed. 2018” e gestito dalla cooperativa sociale Social Lab76, nasce proprio da questa consapevolezza, ossia dalla necessità di una metodologia esperienziale partecipata. Con il supporto di figure professionali e specializzate, i giovani under 20 appartenenti alla popolazione scolastica vengono coinvolti e supportati in un percorso di conoscenza, partecipazione ed elaborazione basato sulla reciprocità, il dialogo e la cooperazione.
Attraverso una serie di iniziative e attività, che sono state svolte in orario scolastico ed extracurriculare, e che hanno riguardato diversi istituti scolastici di istruzione superiori di Benevento e provincia, per un numero di circa 400 ragazzi e ragazze, le operatrici del progetto e le associazioni coinvolte hanno fatto sì che gli studenti e le studentesse si confrontassero su temi di grande attualità. Le attività messe in campo hanno seguito un percorso pedagogico che ha accompagnato le classi ad “imparare-facendo” i principi di un approccio solidale e dell’ascolto attivo, il rispetto dell’altro, la condivisione, l’uguaglianza, la responsabilità e la partecipazione.
Questo Manifesto, frutto del lavoro svolto nelle classi che hanno partecipato al progetto OpS – Operatori di solidarietà, vuole essere uno strumento per continuare ad animare il confronto tra i diversi attori locali, a partire dalle idee, i temi a cui prestare attenzione, i campi di intervento e le linee d’azione che possono essere utili a promuovere la cittadinanza attiva, la cooperazione, la cultura della legalità e dell’inclusione.
La metodologia OpS – Operatori di solidarietà
Costruire spazi di riconoscimento, crescita e condivisione. Un modello partecipativo e la forza del fare esperienza
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.” Queste parole dello scrittore Marcel Proust raccontano al meglio l’esperienza Ops – Operatori di solidarietà. Due anni di incontri e confronto che hanno offerto nuovi strumenti per orientarsi, comprendere e conoscere fenomeni con i quali le giovani generazioni vengono a contatto quotidianamente.
La metodologia esperienziale partecipata, utilizzata nell'ambito del progetto, ha veicolato la co-costruzione, all'interno delle classi, di spazi di riconoscimento, crescita e condivisione. La forza del fare esperienza ed esercitare la presa di parola ha consentito un coinvolgimento emotivo e cognitivo in grado di produrre un apprendimento significativo. Le attività selezionate o costruite ad hoc e proposte alle classi sono state in grado di attivare la potenza del gruppo consentendo un apprendimento collettivo oltre che individuale. Allo stesso tempo i prodotti ottenuti sono stati contenuti ed integrati all'interno di una cornice nozionistica volta a fornire alle e agli studenti informazioni indispensabili e realistiche, al fine di scardinare il pregiudizio fondato su falsi miti e fake news.
Sempre in vista di questo fine, il lavoro non è coinciso con una semplice trasmissione di nozioni.
La parte nozionistica ha rappresentato appunto una cornice all’interno della quale sono state strutturate sia attività-stimolo per innescare il dibattito e l’emersione di opinioni personali delle e dei beneficiari/e, sia incontri con ospiti esterni che con il loro impegno quotidiano all’interno di organizzazioni o con la loro esperienza di vita, incarnavano i temi portati dal progetto.
A conclusione del percorso descritto, le classi hanno elaborato informazioni, contenuti ed esperienze all’interno di una griglia molto semplice nella quale, in base a ciascun argomento trattato, hanno potuto raccontare, collettivamente, la realtà circostante (“ciò che vedo attorno a me”) e le azioni che, invece, la migliorerebbero (“ciò che vorrei vedere attorno a me”). I risultati emersi in questa fase e sintetizzati nei successivi paragrafi dimostrano il successo dell’approccio utilizzato, sia nella capacità di stimolare l’osservazione dei fenomeni che nelle iniziative di prevenzione e contrasto.
Cosa vedo attorno a me
Indifferenza, solitudine,
segregazione, pregiudizi
Indifferenza, solitudine, segregazione, pregiudizi. Parole che pesano come macigni sulla pelle e la vita di chi ci sta accanto. Nella società della competitività, che ci vuole sempre all’altezza delle aspettative, performanti, ciò che si discosta viene rimosso, scompare dal nostro sguardo, fino ad essere in alcuni casi avversato.
Nel binomio normale/anormale l’ “altro”, diviene un peso, un eccentrico, talvolta un nemico. Fenomeni come l’abilismo, il bullismo, l’omobilesbotransfobia, la violenza sulle donne, il razzismo, hanno una matrice profondamente culturale, che si alimenta nella disinformazione e nell’ignoranza. Ciò che non si conosce spaventa con un impatto molte volte negativo sulle relazioni sociali.
Nonostante i numerosi casi di cronaca che raccontano episodi di violenza, odio e discriminazioni, sono ancora troppo pochi i luoghi ed i momenti di confronto, di scambio e di dialogo per i più giovani. Spesso, la conoscenza è affidata alle nuove tecnologie o ai social, con tutti i rischi legati alla capacità di selezionare le fonti. Sessualità, differenze di genere, benessere psicologico, integrazione, continuano ad essere argomenti taboo, che non trovano spazio nel percorso di formazione scolastica. Allo stesso modo, numerosi limiti si evidenziano anche nel contesto territoriale e sociale di appartenenza con politiche pubbliche inadeguate a favorire inclusione e solidarietà.
Le barriere fisiche e culturali ampliano le distanze e determinano vere e proprie distinzioni, negli stili vita, in ciò che è possibile o non è possibile fare, nelle pari opportunità di fruizione dei servizi e degli spazi pubblici.
Barriere, che per alcune categorie di persone diventano delle vere e proprie gabbie che ne impediscono la piena espressione e, di conseguenza, la socialità. È il caso, ad esempio, dell’ascensore mancante o non funzionante negli edifici pubblici o dell’assenza delle rampe sui marciapiedi che rendono inaccessibile per i disabili fisici molti luoghi o, semplicemente, poter fare una passeggiata. È il caso dei giovani migranti, spesso ospitati in strutture fatiscenti e privi di attività utili all’integrazione, quali l’insegnamento della lingua o momenti di scambio con i ragazzi della comunità che li ospita.
È il caso dei ragazzi lgbtqi+ che si isolano per non dover sopportare sguardi, derisione, fino alle aggressioni verbali.
Barriere, quindi, che diventano veri e propri muri che separano da una parte ciò che è considerato “normale”, che segue gli standard culturalmente accettati, e, dall’altra, ciò che non è in linea, il diverso.
L’emarginazione, accentuata dalla dimensione ristretta delle nostre realtà comunali, fa leva sulla stigmatizzazione sociale che porta a colpevolizzare l’altro: “vengono qui per rubarci il lavoro”; “se l’è cercata vestita così” (victim blaming); “solo i pazzi vanno dallo psicologo”. Lo stigma alimenta l’esclusione e la solitudine di coloro che lo subiscono e allo stesso tempo rafforza la “logica del branco”, la cui appartenenza spesso passa per azioni di prevaricazione e violenza. Si pensi al bullismo e al cyberbullismo: per “sentirsi forti”, essere parte integrante del gruppo, ragazzi e ragazze vengono prese di mira per le proprie caratteristiche fisiche, derisi sui social e violati anche nella loro intimità.
Stigma e stereotipi caratterizzano anche quei comportamenti aggressivi e violenti nei confronti della comunità lgbtqi+ e delle donne, che vanno dalle battutine, dall’uso in negativo delle parole gay e lesbica, ai fischi per strada (catcalling), fino alle percosse. Nella violenza di genere, in particolare, alcune forme di sopraffazione vengono sottovalutate o addirittura annoverate come scherzo, riproducendo lo stereotipo della donna oggetto. Questi atteggiamenti si presentano anche nelle coppie evidenziando una scarsa consapevolezza proprio da parte delle ragazze stesse.
Nelle diverse forme di marginalità ve ne è una che riguarda l’intera popolazione giovanile della nostra provincia. Nella società in cui tutto sembrerebbe alla portata di un clic, il contesto che si abita continua ad avere un peso rilevante. I nostri piccoli paesi soffrono un’enorme carenza di servizi: l’assenza di luoghi di aggregazione, di opportunità lavorative e di intrattenimento, la scarsità di reti associative rendono queste realtà sempre meno inclusive, respingenti, chiuse. I luoghi di interesse artistico, culturale e naturalistico sono poco valorizzati e privi di una visione di insieme. Moltissimi ragazzi non possono spostarsi dal posto in cui abitano senza essere accompagnati dai genitori perché non esiste un adeguato servizio di mobilità, rendendo impossibile frequentare altre attività, sportive, culturali e sociali. L’isolamento pesa maggiormente per quei ragazzi e quelle ragazze che vivono condizioni di maggiore difficoltà, nel disinteresse spesso di istituzioni poco attente alle esigenze dei più giovani.
Cosa vorrei vedere attorno a me
Conoscenza, inclusione,
solidarietà,
integrazione.
Conoscenza, inclusione, solidarietà, integrazione. Sono queste le parole chiave di una comunità solidale, capace di accogliere ed includere, di valorizzare le differenze e sostenere la libera e concreta espressione di ciascuno.
Parole che comportano azioni e comportamenti in grado di spezzare il circolo vizioso del silenzio, della rassegnazione e della solitudine e dove la scuola può avere un ruolo da protagonista: è nelle aule, tra i corridoi, che si vivono principalmente le relazioni, si entra in contatto con l’altro e ci si confronta, riconoscendo i propri bisogni e quelli di chi ci è accanto. La scuola è il luogo per eccellenza della formazione: è qui che si acquisiscono nozioni, competenze e consapevolezza delle proprie ambizioni e attitudini. Ma la scuola è anche il terreno su cui piantare i semi di ciò che saremo in futuro, dove si cade e ci rialza per la prima volta, dove si compie quel famoso passaggio dall’adolescenza alla vita adulta. Durante il percorso scolastico i ragazzi e le ragazze affrontano la crescita e tutte le trasformazioni che ne derivano, da quelle sul proprio corpo alla definizione della propria identità. Come tutti i cambiamenti, se da un lato hanno una forte componente di adrenalina, dall’altro generano frustrazione, angoscia e paure. Orientarsi necessita di strumenti in grado di accompagnare questo percorso, a partire da quegli argomenti considerati ancora taboo, come l’educazione sessuale. Il corpo, le pulsioni sessuali, i metodi contraccettivi e i servizi sanitari connessi devono poter essere oggetto di divulgazione e discussione, in primis nelle scuole che sono i luoghi per eccellenza frequentati dai ragazzi e dalle ragazze. Una sessualità consapevole, oltre a garantire la prevenzione da malattie o gravidanze indesiderate, aiuta i più giovani a rispettare sé stessi ed i propri partner.
Formare gli adulti del domani impone in primo luogo formare gli adulti dell’oggi a relazionarsi con i più giovani, comprenderne i nuovi bisogni, superare la standardizzazione del modello formativo. Ciò vuol dire maggiore attenzione da parte delle istituzioni per la popolazione più giovane, ovvero dalla realizzazione e cura degli spazi a loro dedicati, dall’implementazione delle attività di socializzazione e confronto, dal maggiore supporto nelle situazioni di marginalità.
Parlare di più di alcuni temi è il primo passo. Sensibilizzare i ragazzi, oltre a fornire loro maggiore consapevolezza su quanto loro stessi o propri compagni vivono, li fa sentire meno soli e abbatte quelle barriere mentali che spesso li porta a chiudersi, ad evitare di parlarne per non apparire “sbagliati”. Entrare in contatto con la testimonianza assume un valore fondamentale: conoscere le storie e i percorsi di “chi ci è passato” aiuta spesso a riconoscersi, a trovare il coraggio di aprirsi e comprendere le ragioni dell’altro. L’incontro e lo scambio, per la natura stessa del confronto e del dialogo, rimuovono i pregiudizi e aiutano a superare molte resistenze. È il caso di chi è scappato dalla guerra o dalla povertà e che cerca qui, esattamente come ognuno di noi, il proprio diritto a vivere una vita dignitosa. Così come un giovane e una giovane omosessuale rivendica la libertà di essere sé stesso/a, di amare e di essere amato/a. La forza della testimonianza diventa dirompente nelle parole delle donne vittime di violenza, nel racconto di un modello culturale che tiene relegata la donna, nella colpevolizzazione per non essere state in grado di riconoscere i primi segnali di comportamento violento. Ma anche nel coraggio di denunciare, rialzarsi, ricostruire la propria vita.
Conoscere ci rende più forti, più consapevoli delle nostre azioni e del male che possono arrecare. E ci rende meno vulnerabili e condizionabili dagli stereotipi.
Nel percorso di formazione scolastica dovrebbero entrare a pieno titolo attività extra didattiche miranti proprio a favorire il confronto ed il dialogo con realtà associative e con personale specializzato, che accompagni i ragazzi e le ragazze ed il corpo docente ad acquisire informazioni e consapevolezza.
Se conoscere ci libera da pregiudizi, stereotipi e marginalità, praticare l’inclusione sociale richiede gesti e comportamenti concreti. La socialità si alimenta di spazi e momenti di condivisione e di incontro. È nell’agire quotidiano, nel tempo che dedichiamo agli altri, nel linguaggio che usiamo per comunicare che si costruiscono le basi di una vera comunità solidale.
L’accessibilità dei luoghi è la precondizione per garantire ad ognuno la reale opportunità di partecipazione. Occorre ripensare ai nostri spazi urbani e agli edifici pubblici in un’ottica inclusiva, rimuovendo quelle barriere architettoniche che impediscono ai portatori di disabilità di poter fruire degli stessi e delle attività che vi vengono svolte. Poter fare le stesse cose dei propri coetanei, dallo sport ad altre attività di natura culturale e ricreativa, favorisce l’autonomia e offre maggiori occasioni di scambio e integrazione. “Stare insieme”, a scuola e fuori da essa, è il principale strumento che abbiamo per contrastare la segregazione e rimuovere le ben più dure barriere mentali. Istituzioni, associazioni e scuole dovrebbero lavorare con maggiore sinergia per organizzare incontri e momenti di condivisione tra i più giovani per coinvolgere anche i ragazzi e le ragazze migranti. Manifestazioni sportive, laboratori culturali, eventi ricreativi da realizzare insieme, con il supporto di mediatori culturali, aiuterebbero i giovani e le giovani migranti a sentirsi parte della comunità che li accoglie e, in maniera reciproca, far sì che la comunità possa conoscerli meglio ed integrarli.
Valorizzare le differenze significa riconoscere l’unicità di ciascuno e rispettarlo. Il colore della pelle, la disabilità, un diverso orientamento sessuale o, più semplicemente, la fragilità emotiva non sono “problematiche da trattare” con il solo intento di contrastare possibili fenomeni discriminatori. Capovolgere questa narrazione vuol dire riconoscersi parte di una comunità, con le sue diversità, i suoi bisogni e le sue aspirazioni; significa rompere la dicotomia normale/anormale.
Luoghi, spazi e linguaggi inclusivi sono alla base della relazione con l’altro, i presupposti su cui si fonda la reciprocità ed il rispetto. In tal senso, istituire, ad esempio, la carriera alias nelle scuole e bagni gender free rende visibili e pienamente in condizioni di esprimersi quei ragazzi e quelle ragazze che vivono il proprio percorso di transizione. La fase di vita scolastica, infatti, coincide con quella della crescita e della scoperta di sé stessi. Favorire l’inclusione e combattere fenomeni di omotranslesbofobia è una responsabilità di cui è proprio la scuola a doversi fare carico, anche attraverso periodici momenti di approfondimento.
Le grandi trasformazioni degli ultimi anni, la pervasività dei social media nella vita quotidiana, eventi inediti come la pandemia e la crescente incertezza verso il futuro, hanno messo in evidenza la centralità e l’urgenza del benessere psicologico, in particolare nelle nuove generazioni. Accettazione di sé, crescita personale, relazioni positive con gli altri non sono affatto scontate e, spesso, richiedono un maggiore supporto, soprattutto tra le fasce più deboli.
Sentirsi bene con sé stessi, conoscersi ed accettarsi, oltre ad essere un bisogno comune, è il modo migliore per vivere con serenità nella comunità, per attrezzarsi ad affrontare le sfide del presente e del futuro, ad aver cura di sé e di chi ci circonda.
Sportelli di ascolto e figure specializzate da inserire negli istituti scolastici garantirebbero all’intera popolazione giovanile luoghi sicuri in cui potersi esprimere e parlare delle loro debolezze, superando lo stigma che ancora persiste sulla salute mentale.
Conclusioni
Vogliamo una comunità solidale, inclusiva, in cui ognuno possa sentirsi libero di essere sé stesso, in cui la differenza sia un valore e non una barriera, in cui sentirsi supportati e sostenuti.
La scuola è il luogo naturale per costruire quello spazio di pensiero e di parola, un motore straordinario di cambiamento. È qui che se ne avverte il maggior bisogno e in cui la sinergia con le istituzioni e le associazioni presenti sul territorio può diventare un valido strumento. Gli argomenti oggetto dell’intervento hanno riguardato i temi di maggiore attualità e hanno riscontrato grande consenso ed interesse nella popolazione scolastica. Coerentemente agli obiettivi preposti e alla finalità di promuovere le pari opportunità, i diritti della persona, il contrasto alle varie forme di discriminazione e, più in generale, di costruire opportunità di contatto con il mondo del Terzo Settore e del Volontariato, sono state affrontate le seguenti tematiche:
• Benessere psicologico;
• Violenza di genere;
• Bullismo;
• Fenomeno migratorio;
• Comunità LGBTQI+;
• Disabilità;
• Educazione sessuale;
• Nuove dipendenze;
• Orientamento al lavoro.
Il progetto OpS – Operatori di solidarietà, oltre a rispondere al bisogno crescente delle nuove generazioni di essere informati e formati sui molteplici aspetti che riguardano la loro vita, ha avuto il merito di renderle protagoniste, di raccontarsi e non farsi raccontare, di riconoscersi nelle fragilità delle e dei propri coetanei, comprendendo le conseguenze di comportamenti che, anche inconsapevolmente, possono ferire l’altro/a. L’approccio partecipato ha fatto emergere bisogni e aspettative ma anche i limiti di un modello formativo che rifugge, troppo spesso, dall’affrontare alcuni temi. Allo stesso tempo ha offerto un quadro di riferimento su cui continuare a lavorare, evidenziando ciò che manca e su cui occorrerà continuare un percorso.
Inclusione sociale, formazione, promozione di azioni e comportamenti solidali e di contrasto alle diverse di discriminazione, oltre ad essere elementi fondanti del progetto, ne costituiscono anche i principali indicatori di successo. Le classi solidali, quali luoghi di sperimentazione e di sviluppo dell’approccio solidale, si collocano come attori strategici nel più ampio obiettivo di costituzione delle comunità educanti. I ragazzi e le ragazze che partecipano al progetto diventano parte attiva di un tessuto di relazioni solidali che, in maniera virtuosa, si estende al contesto familiare ed amicale e al territorio in cui vivono ed operano.
“Ciò che vedo attorno a me” è una realtà in cui le discriminazioni e l’emarginazione sociale coltivano il proprio terreno. “Ciò che vorrei vedere attorno a me” è una prospettiva che si interroga, si mobilita, a partire dai piccoli gesti, dall’uso consapevole del linguaggio, del tempo che possiamo dedicare agli altri.
Costruire una comunità solidale vuol dire, innanzitutto, costruire una comunità inclusiva in cui ognuno possa sentirsi libero di essere sé stesso, in cui la differenza sia un valore e non una barriera, in cui sentirsi supportati e sostenuti.
Il Manifesto della comunità solidale di OpS – Operatori di solidarietà si pone l’obiettivo di offrire una traccia di riflessione, una bussola che possa servire alle e agli studenti, gli istituti scolastici, le associazioni coinvolte e le istituzioni per proseguire un percorso comune.
Bisogni e proposte su cui costruire un’alleanza tra scuola, istituzioni, enti del Terzo settore, capace di darsi nuovi obiettivi, assumersi degli impegni e condividere la responsabilità collettiva di rendere le nostre comunità realmente inclusive e solidali.